Questo mio articolo sulle giovani artiste degli anni Novanta è uscito su D di Repubblica a marzo del 1997. Sono contenta che la maggior parte di loro si sia affermata e stia continuando a lavorare nel mondo dell’arte. Se volete poi leggete anche quest’altro: Le nuove artiste libere di creare, da Vanessa Beecroft a Grazia Toderi

Forse le loro mamme fanno confusione con i tasti del videoregistratore – play, rec, stop – per non parlare di computer, modem, videocamera e fax. Loro no, le giovani artiste degli anni Novanta, sono nate con la tecnologia.

Crescendo hanno scoperto che Internet è più interessante della televisione, puoi interagire, dire la tua, modificare i messaggi. Usano videocamera, scanner, computer con la stessa naturalezza con cui le loro mamme usavano uncinetto, ago e filo.

La tecnologia è uno strumento, come un pennello

Sono elementi che servono tutti i giorni per comunicare, cosa c’è di strano a utilizzarli per creare un prodotto artistico? Se si usa il microonde la minestra è pronta in pochi minuti, se si naviga in Internet si ricevono informazioni in poco tempo e a basso costo. La videocamera è ormai alla portata di tutti. La differenza tra un video d’arte e un video che ritrae comunioni, matrimoni e vacanze è solo l’idea: però bisogna avere un progetto artistico.

«Non è importante il mezzo che si sceglie, importante è il risultato. Alcuni artisti credono che bisogna usare la tecnologia per produrre lavori rilevanti. Non sono d’accordo: i computer sono puri strumenti, come pennelli, matite e gesso», scrive il critico newyorkese Benjamin Weil, nel suo sito internet.

Così la pensa anche la giovane critica Emanuela De Cecco: «I giovani che adoperano la tecnologia non sono fanatici degli strumenti: utilizzano videocamera e computer perché la tecnologia fa parte della loro vita».

Meglio internet, la pittura sporca le mani

Anna Clara Stuart Tovini, capelli lunghi, ricci e neri, nonostante abbia antenati scozzesi. Anna e Clara, le due bisnonne, erano pittrici e musiciste, «artiste aristocratiche da salotto». Vive a Milano con Vincenzo Chiarandà; con lui ha fondato la Premiata Ditta. Non si è divertita all’Accademia di Belle Arti: «Non mi insegnavano a usare i mezzi espressivi contemporanei, tra cui la computer grafica. Non mi piace l’olio, la pittura: mi sporcano le mani».

Usa il computer per lavorare al sito (Undo.Net), lavoro collettivo dove confluiscono più teste. Anna, Vincenzo ed Emanuele Vecchia, «una specie di mostro hacker di 22 anni», concepiscono il sito come progetto artistico, non come opera d’arte: «Abbiamo creato un luogo bello da visitare, con informazioni sull’arte contemporanea. Vincenzo passa al computer più ore di me. Forse le donne sono meno maniache del mezzo. Gli uomini si fissano, i ragazzini cadono come pere dentro i videogame».

Stella Scala e la vedova Mazzei

Stella Scala, 32 anni, napoletana, così come Simeone Crispino, 35 anni: un giorno, a Napoli, siamo passati davanti a una casa. Su un vecchio supporto di porcellana, c’era scritto Vedova Mazzei. E abbiamo scelto di chiamarci così, racconta.

Che rapporto hai con la tecnologia? «Soddisfa il mio desiderio per una vita ridotta. Il computer è una persona primitiva, non ti dà tempo di farfugliare. Si eliminano le chiacchiere e rimane l’essenza della comunicazione. Nel video Cupa, Stella viene ripresa mentre si sta incollando, sul viso, pezzi di nastro adesivo: quando lo abbiamo registrato la troupe televisiva rideva a crepapelle. Li divertivo con il volto deturpato. Doveva essere doloroso per loro quello che stavo facendo!»

Stupidità femminile = Stupidità maschile

Paola Gaggiotti, 30enne, è ossessionata dalle immagini, archivia pubblicità, pagine di riviste femminili, poi le ricalca: «Sto china come una ricamatrice per ore. Non si ferma alla matita, al ricalco, usa anche la telecamera betacam. In Proprietà privata ha ripreso alberi, sentieri, torrenti, e, al montaggio, li ha dipinti al computer con colori violenti.

Si sente perfettamente a suo agio sia dietro sia davanti all’obiettivo. Nel video Rosa rosae si trucca guardando la telecamera. Entra in campo un uomo, le dona una rosa e, infine, lei bacia l’obiettivo lasciando l’impronta del rossetto Chanel.

Adoro leggere le riviste femminili: contengono immagini dentro le quali vorrei vivere. Nel mio lavoro metto in piazza la cosiddetta stupidità femminile. Non sono stupidi anche i maschi? La tifoseria da stadio, il rugby, la Formula Uno, non sono cose stupide? Ma loro mica si vergognano».

Sono l’inizio della tua fine

Anche Ottonella Mocellin, milanese, ha trent’anni. Come Paola Gaggiotti, anche se in modo diverso, cerca di smascherare i luoghi comuni sulla femminilità: «L’immagine che vien fuori dalla pubblicità è falsa: o è rassicurante, la mamma che stira, lava, cucina, oppure è la bellona che ti porti in macchina, oggetto di seduzione. Cerco di stravolgere questo stereotipo, esasperandolo».

In una sua foto, una donna mostra una torta con su scritto: Sono l’inizio della tua fine, una normale casalinga che fantastica omicidi. Alcune sue foto la riprendono mentre le vengono proiettate, da un kodack Carosel, diapositive da 35 mm sul pube o in faccia.

Lavorare con telecamera, ago e filo

Alice Bonfanti, anche lei di Milano, ha 27 anni. Con Deborah Ligorio, sua amica, ha girato un video sui sogni e l’ha proposto all’Openspace in piazza Duomo, a Milano.

«La nostra idea era creare uno spazio godibile nel centro di Milano, una sosta durante una calda giornata di luglio», dice.

Gli strumenti che preferisce? Telecamera, ago e filo. In un video, cuce i guanti da chirurgo che indossa, un’operazione lunga e monotona, «un po’ paranoica», ride. Usa l’ago anche per cucire frasi su coperte.

Un branco di giovani artiste in un seminterrato

Ciracì, Gabellone, Galegati, Ligorio, Marcaccini, bussare alla finestra del seminterrato”: scritto sul citofono di via Fiuggi 12, periferia di Milano.

I nove inquilini si sono conosciuti a Bologna, studiavano all’Accademia e al Dams. A Milano hanno trovato questo spazio che poteva contenerli con le loro idee. Nella stanza più grande, su una consolle, quattro computer accesi la fanno da padroni.

Qui abitano quattro artiste, ora ce ne sono solo tre punti Sarah Ciracì e Deborah Ligorio sono pugliesi , Stefania Galegati è di Ravenna. Hanno poco più di vent’anni. Da piccole hanno inghiottito quantità infinite di cartoni giapponesi, mostri che distruggono intere città.

E hanno sovrapposto le immagini di Heidi, Remì e Candy Candy a quelle di Mazinga , Gig e Star Trek: scenari che ora ripropongono nelle opere.

Nel sito di Deborah Ligorio si trovano frasi come: “Alcune persone vivono in seminterrati, in ampi locali a minor prezzo, riciclano spazi che in passato avevano altre funzioni, vivono e lavorano insieme come le api nelle loro celle”.

«La mia generazione ha assorbito, attraverso film di fantascienza, scenari desolati alla Blade Runner. La fantascienza è un avvertimento, una critica alla nostra società”, spiega Sarah Ciracì. In Neanche rumori di fondo ha creato il vuoto, il deserto, un senso di solitudine, scattando foto di paesaggi, passandole allo scanner ed eliminando, attraverso il fotoshop, montagne, strade, alberi, case.

In una collettiva ha messo in mostra due trivelle vere: «Sembrava venissero su dal sottosuolo scardinando il pavimento, come se un mostro stesse penetrando in galleria. Cosa costruiremo noi degli anni Settanta, che abbiamo questo immaginario?».

Stefania Galegati lavora con videocamera e computer. In una foto di Milano, ha eliminato le ombre delle case e ha inserito due soli: uno tramonta, l’altro sorge: «Si chiama Progetto 96. Una proposta, un’ipotesi di mondo».

Tra graffitti e videocamere di sorveglianza

È interessante anche il lavoro di Monica Cuoghi. Vive in un capannone dismesso fuori Bologna e da anni lascia tracce in città, disegnando sui muri, con Claudio Corsello, graffiti di paperette, ma produce soprattutto video, utilizzando anche la pornografia.

Poi c’è Simonetta Fadda, genovese: col video indaga il linguaggio tv, la diretta, il rapporto tra cronaca e fatti realmente accaduti.

Altre artiste – Toderi, Moro, Ruggeri, Beecroft, Marisaldi, Betty Bee – hanno usato il video in più occasioni. Fanno tutte parte di una generazione che non crea prodotti immediatamente godibili, artistici in senso tradizionale, ma lavora sul linguaggio dei media, sulla pubblicità, per smascherare i meccanismi che tengono in piedi il sistema della comunicazione.

Nella foto d’apertura: dall’alto, in senso orario, Paola Gaggiotti in Rosa rosae (1995), due momenti del suo Proprietà privata (1994) e Senza titolo (1996). In basso, un’opera di Alice Bonfanti.

Vi invito tutti ad andare a vedere la mostra di Paola Gaggiotti, Quarta Vetrina, che inaugura il 25 giugno a Milano, presso la Libreria delle donne.

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