Luglio 2016: riflettendo su dove sta andando oggi il giornalismo e a cosa serviamo noi giornalisti

In Italia manca una strategia per difendere la professione, la dignità dei giornalisti, e di conseguenza la libertà di stampa. Spesso si ragiona con schemi antichi, ci si arrocca su posizioni difensive che ora sia per la crisi, sia per l’avvento di internet e dei social network, non riescono a portare più risultati.

Le regole, come i contratti dei giornalisti, sono state pensate per un mondo che non c’è più

Una categoria – quella dei giornalisti – che era riuscita a raggiungere un forte livello di consapevolezza, salari alti anche grazie ai finanziamenti pubblici. E che produceva un’informazione di buona qualità, sempre per i parametri italiani.
Ora quel mondo è scomparso, l’ho già detto.
Per essere liberi di esprimersi, bisogna essere compensati. Avere degli stipendi degni di questo nome. Ma le piccole testate, pur di qualità, non ce la fanno a star dietro a salari conquistati dai colleghi in anni migliori. Necessita a parer mio una nuova contrattualistica che permetta alle testate web di pagare stipendi più che dignitosi, ma consoni ai tempi.

Di fronte a nuove regole, si può ovviare allo stillicidio che vediamo oggi. Tante piccole testate vomitano notizie tutte uguali, mandano on line articoli non firmati, scritti a casa da collaboratori mal pagati, che hanno il compito di piazzare bene gli articoli su Google, con le giuste parole chiave, con il solo scopo di fare visite. Ormai con internet non c’è più bisogno di una redazione fisica e i giornalisti lavorano da casa e non sono rintracciabili.

Quante sono queste testate fantasma? Centinaia. Non verrebbero alla luce se ci fosse un contratto adatto ai tempi? Forse sì, forse no.
Mi ricordo un volta che Umberto La Rocca, quando era direttore del Secolo XIX, mi ha raccontato di quanto fosse furibondo, perché diversi siti web rubavano notizie alla sua testata, cambiavano qualche parola e voilà l’articolo era on-line. È successo per anni anche a noi, a mentelocale. Concorrenza sleale. Come regolamentare tutto ciò?

Quanta confusione tra libertà e informazione

Inoltre, sul web, anche le testate storiche fanno spesso confusione tra informazione e pubblicità. Questo è un altro grande problema, che più che toccare la libertà di stampa, tocca la libertà del lettore di essere informato adeguatamente. Siamo in pochi, credo, a capire – a volte – se un contenuto correlato è una pubblicità o un articolo. Vorrei raccontare anche questo spiacevole episodio: una mia tirocinante dopo aver finito il periodo da noi è stata contattata da una piccola testata. Le hanno chiesto di scrivere articoli e allo stesso tempo di chiedere la pubblicità alle persone che intervistava. Mi aveva voluto incontrare per chiedermi se era giusto, perché da noi non aveva visto niente di simile. Per fortuna poi ha fatto un altro tirocinio a Rainews24.

Google e Facebook si arricchiscono senza pagare i contenuti altrui sui quali fanno profitti

In un momento già di per sé tragico per il giornalismo italiano, si aggiungono i social network e soprattutto Facebook, che certo non aiutano questa situazione allo stremo. Così come Google.
Li considero grandi e geniali invenzioni, ma ormai approfittano del loro ruolo dominante per sfruttare il lavoro degli altri senza pagarlo. Google e Facebook, ad esempio, non hanno un solo giornalista dipendente in Italia eppure forniscono – attraverso link – milioni di informazioni prodotte da redazioni pagate da editori italiani, e in questo modo diventano essi stessi un gigantesco giornale che poi riempiono di pubblicità. Ma non solo. Facebook arriva all’assurdo di pretendere di farsi pagare per dare visibilità alle notizie delle testate giornalistiche di tutto il mondo.

Qualcuno potrebbe pensare che in realtà i social e Google aiutano gli articoli a essere letti da più persone. Ebbene non è proprio così. Google sceglie di mettere in vista chi si adegua ai suoi canoni, così come Facebook, che, tra l’altro, per far girare gli articoli postati sulle pagine delle testate, come ho appena detto, chiede anche i soldi.
Se una testata apre una pagina Facebook, a mano a mano che diventano più numerosi quelli che mettono “mi piace” diminuisce la portata dei link degli articoli postati, cioè la visualizzazione nelle homepage degli utenti. Dopo i 25.000 like la situazione diventa sempre più difficile. Il senso comune direbbe che gli articoli dovrebbero essere visualizzati da più lettori se hai più iscritti. No, è l’esatto contrario. Ti arriva una finestra che ti dice: Metti in evidenza il tuo post e, se tu ci clicchi sopra, ti invita a pagare per far girare di più il tuo link e farlo arrivare su più homepage. Un articolo diventa quindi semplicemente una merce da vendere sui social. Come la pubblicità di un paio di scarpe.

Google e Facebook competitor delle testate giornalistiche per la raccolta pubblicitaria

Ma le disgrazie non sono finite qui: Google e Facebook raccolgono quintali di pubblicità in Italia e in tutto il mondo, da aziende piccole e grandi. Anche pubblicità locale, e questo va a discapito del fatturato di tutte le testate giornalistiche, dalla carta stampata alle televisioni, dalle radio alle testate web. Gli uffici marketing di molte aziende – dalle multinazionali al locale trendy sotto casa – preferiscono investire sempre più sui social invece che sulle testate che fanno informazione.
Molte aziende e anche le testate, inoltre, spendono soldi per compensare un’intera generazione di nuovi giornalisti tra virgolette che si definiscono anche “social media editor”. Cioè investono soldi per compensare professionisti che stanno dietro ai social. Per fare marketing di un prodotto, di un articolo come di un paio di scarpe. Appunto.
Un altro mio tirocinante milanese che per fortuna ora si è piazzato bene, ieri mi ha chiesto di mettere “mi piace” a un inserto di un’importante testata nazionale: l’ho fatto! Ma dato che è proprio bravo non potrebbe occupare il suo tempo in altro modo?

La torta va condivisa anche con le testate e i giornalisti che producono i contenuti

Come uscirne? Facendo pagare le tasse a queste multinazionali dell’informazione in maniera costante e consona nei paesi dai quali ricavano miliardi di euro. E una mia piccola proposta, sarebbe di darle alle testate – grandi e piccole – che fanno informazione, nonché alle start up di giovani che lavorano sul web a diversi titoli. Un po’ come se Google e Facebook restituissero i soldi a chi lavora per loro gratis.
Ma cosa ci vorrebbe? Un comitato scientifico di esperti che sapesse scegliere – e non in base all’amicizia e all’appartenenza – chi ha diritto a questi fondi. Un sogno? Bisogna pur sognare per cambiare le cose, o no?
Ormai la grande massa legge le notizie postate su Facebook dagli amici. La vera e grande “testata” di successo oggi in Italia, con un fatturato in incredibile crescita è proprio Facebook, che non deve sottostare alle leggi fiscali del nostro paese e nemmeno alla contrattualistica.

Una situazione paradossale sulla quale si riflette poco. Il web che, come diceva Franco Carlini, uno dei miei maestri, poteva diventare il regno della libertà e della democrazia, sta sempre più diventando il regno del bengodi per pochi miliardari, con aziende quotate in borsa.

A chi interessa più la libertà di stampa?

E come gioca la libertà di stampa in tutto questo? Molte testate pubblicano sulle loro pagine Facebook gattini e cagnolini, per attrarre l’attenzione dei lettori. Su Facebook vediamo quante notizie false e quante bufale vengono fatte circolare, e la gente ci casca. Succede anche ai colleghi di testate storiche, che pubblicano notizie false che trovano su Facebook. Notizie che poi devono smentire. Non si cercano più le fonti, si crede che su Facebook circolino solo notizie credibili. Ogni tanto ci caschiamo tutti.
In conclusione, se i colleghi sono costretti a inserire le parole chiave su Google, piazzare bene il pezzo sui social, rimane sempre meno tempo per approfondire le notizie. Ormai l’urgenza è farle circolare, piuttosto che elaborarle secondo i criteri della deontologia. Figuriamoci se le giovani generazioni, in questa confusione, hanno tempo di occuparsi della libertà di stampa. Devono pensare a come mettere insieme il pranzo con la cena. E in pochi hanno il coraggio di formulare un pensiero originale. E chi lo fa, chi ha la libertà di farlo, spesso scrive gratis, per testate militanti, come sto facendo io ora. Che però il lavoro ce l’ho.

I giornalisti sono tutti destinati a diventare professionisti del marketing?

L’Italia poi è un capitolo a parte. La situazione è ancora peggio, come sappiamo tutti. Nella classifica di Reporters sans Frontieres il nostro paese, nel 2016, ha perso ancora 4 posizioni, scendendo dal 73° posto del 2015 al 77°, su un totale di 180 Paesi. L’Italia è il fanalino di coda dell’Unione Europea, seguita da Cipro, Grecia e Bulgaria.
Diamoci una mossa, colleghi, guardiamo al presente, e al futuro. Non al passato.
Cerchiamo di uscire fuori da questa situazione, altrimenti la categoria – nei prossimi dieci o vent’anni – potrebbe scomparire del tutto. O essere sostituita da professionisti del marketing.

Intervento fatto in occasione di una tavola rotonda sulla libertà di Stampa e uscito sul sito web www.giornalistisocial.it a luglio del 2016, non più aggiornato, a testimonianza di quello che scrivo nell’articolo.

Leggi anche: Franco Carlini, pioniere del web. Lo abbiamo ricordato a 10 anni dalla morte. Chissà cosa direbbe oggi di Facebook del 6 dicembre 2017

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