Ho scritto questo testo quando avevo poco più di trent’anni, giocando con la parola mancanza, una parola che in questi tempi grami sembra scandire le nostre giornate. Wikipedia non esisteva ancora e tutti usavamo il vocabolario. È stato pubblicato su una rivista femminista. L’ho trovato liberando casa di mia madre, e mi ha riportato molto indietro nel tempo, quando il mio linguaggio non era ancora stato addomesticato dal giornalismo.
Vorrei ritrovare quello spirito nella scrittura, però con la consapevolezza che l’età mi ha dato.
Buona lettura


Di solito il foglio bianco non mi spaventa neanche un po’, mi sbrodolo nella scrittura, provengo dalla scuola delle cinque cartelle. Ho cominciato così a scrivere sui quotidiani, cinque cartelle per volta. Oggi voglio riflettere con voi sulla parola mancanza

Mancanza, ma che parola!

Mancanza, Dio mio! Mio Dio! Non so cosa scrivere. Ecco che provo panico, il panico della pagina vuota. Mi sembra che lo schermo del computer, del mio buon vecchio Macintosh, stia sghignazzando: «Finalmente sei stata presa alla sprovvista».
Corro in cucina, dove sta il caro buon vecchio vocabolario, il Devoto-Oli, in mezzo ai libri di ricette che non consulto mai, non perché sia una bravissima cuoca, ma perché non vado oltre il risotto coi funghi, l’unica mia specialità.
Lo apro, lo consulto e medito su ogni parola, compresi gli esempi.

Mancanza, sostantivo femminile:

non mi dice niente di nuovo, fin da piccola ho sentito che mi mancava qualcosa, quello spicchio di libertà in più concessa a mio cugino. Me ne sono sempre infischiata e ho ruzzolato giù dai monti, dalle finestre, ho passeggiato sugli orli dei muretti, mi sono seduta tenendo le gambe larghe, proprio come faceva lui.

Poi ho sentito la mancanza delle bambole: ho abbandonato pistole, fucili, macchinine e ho cominciato a convivere con Barbie, pentolini e culle.
Non poteva che essere un sostantivo femminile. Come suona mancanzo?, male vero?

Insufficienza:

alle elementari mi sentivo insufficiente. Eravamo già negli anni Sessanta, ma le maestre, almeno la mia, erano uno strazio di luoghi comuni. “Stai composta!”; “Ricordati che sei una femminuccia e non un maschiaccio”. Ma se n’è mai resa conto, lei, la mia maestra di non essere per niente una femminuccia? Di “femminile” aveva solo quella voce petulante, stridula come il freno del treno quando preme sulle rotaie.

Privazione:

certo di quello sì, di quello ne sono proprio priva, non ce l’ho, mai l’ho avuto, mai lo avrò. Quel Moloch culturale, che intesse di simbologia le venature dell’esistenza, tanto sopravvalutato rispetto alla sua omologa femminile, che poverina là allo scuro nessuno la vede. La feritina che mi costringeva tanto a star composta, a non scavalcar cancelli, a non giocare a pallone.
Si deve crescere e studiare tanto per capire che non è una feritina, ma un occhio sul mondo, che dà piacere e vita. A noi bambine degli anni Sessanta mica ce lo dicevano ancora. Ora sì, ora queste bambine qui lo sanno, sanno tutto, sono dei piccoli mostri. Mica li scavalcano più i cancelli per farsi rispettare dai maschi. Basta uno sguardo di superiorità che scappano impauriti.

Assenza:

quella del maschio, marito, fidanzato. Sì, me l’hanno tesa la trappola, anche a me, in quegli anni Sessanta, mitici e libertari. Da grande ti devi sposare, avere bambini, senza un maschio non si può stare.
Fortuna che erano anni mitici e le bambine mie coetanee sentivano voci discordanti, come: una donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta.

Cosi ho cominciato a sognare il mio vecchio pesce rosso che cercava di imparare a cavalcare la bicicletta e proprio non ci riusciva, povero animale.
Poi finalmente ce l’ha fatta, è evaso dalla palla di vetro per sfrecciare in bicicletta sull’orlo del tavolo, facendo gincana tra bottiglie, forchette e il cestello del pane. Ma senza acqua è morto.
Mi sono svegliata di soprassalto, sono corsa in cucina e, lui, era sempre lì nella vaschetta sano e salvo, con i suoi occhietti allegri e attenti.
«Tu sei un pesce senza bicicletta – gli ho detto rassicurata – Se mi prometti che non lo farai mai più, neanche nei miei sogni, io rimarrò per sempre senza uomo».
Abbiamo stretto, in silenzio, quel patto segreto. Poi gli eventi della vita mi hanno fatto imbattere in un compagno con cui, purtroppo, sto bene.
E allora ho tradito il mio vecchio pesce rosso. Ogni tanto lo sogno ancora, il pesce rosso, che mi sorride dall’aldila. Va in bicicletta come un pazzo. Ha tradito il nostro patto anche lui, mi ha detto, e si diverte a svolazzare tra le nuvole su una mountain bike nuova fiammante.

Mancanza d’autorità:

ecco che ora il Devoto-Oli fai suoi esempi. Non sento mancanza d’autorità, ma di autorevolezza. Di autorità ce ne sono anche troppe, di persone autorevoli un po’ meno.
Questo vorrei diventare da vecchia: una donna autorevole, non un’autorità. Dell’autorità non sento la mancanza, di autorevolezza sì.
Sento la mancanza di un mondo di donne autorevoli che ricoprano posti di potere. Se si lavora in proprio senza padri, né padroni, né padrini si hanno tanti contatti con uomini di potere. E con qualche donna.
Gli uomini, spesso, parlano di loro stessi, di quanto sono bravi, intelligenti, geniali. Alcuni scrutano con interesse culo e tette. E poi ti danno le briciole. Le donne parlano del lavoro che tu dovresti fare e cercano di capire se sei all’altezza e, in quel caso, a volte, ti danno una fetta di torta.

Mancanza di nutrimento:

di quello no, per carità, mai ne ho sentito la mancanza! Ho sempre mangiato troppo, mi sono ingavonata, ho inghiottito noccioline, olive, salatini, crostini al formaggio. Nei periodi del liceo passavo pomeriggi ad aprire e chiudere il frigo: una volta mi è rimasto lo sportello in mano.
Riuscivo a far fuori la spesa in due ore.
Avevo un buco dentro, un vuoto insaziabile, una voragine tritatutto che risucchiava anche i succhi gastrici nel suo vortice. Che non riuscivo a colmare, a tappare, a comprimere.

Oscillavo tra gli ottantatré chili e i sessantadue, e poi di nuovo su a settantacinque per poi scendere a sessantotto. Come negli autovolanti, solo che mitragliavo me stessa e non gli altri veicoli in volo. Mi ci sono voluti i trent’anni per tappare la voragine. Mi sono pesata in questo momento, la paura ancora non mi abbandona, anche se sono due anni che oscillo solo tra i sessantadue e i sessantasei.

In m. del direttore:

manca il direttore e chi se n’è accorta?
Un mondo senza direttori, una direttore senza mondo. Ora, caro Devoto-Oli, edizione 87, si dice: in mancanza del manager.
Di direttori non ne ho mai avuti, solo a scuola. Anzi, avevo una direttrice, alla Montessori. La ricordo alta e magra con i capelli neri incollati alla testa. Era severa, troppo arcigna per essere umana. Me la ricordo in cima alle scale, fuori dal suo ufficio dal quale usciva solo per motivi eccezionali. L’avevano richiamata le mie urla, avevo addosso le manacce di tre o quattro maestre che mi volevano portare di peso in classe anche se la ricreazione non era finita.
Cosa avevo combinato? Chi se lo ricorda. No, direttrice, non sento la sua mancanza. Mi consenta: ma lei è mai esistita è schizzata fuori dal mio immaginario?

Non sa darsi pace della sua mancanza:

l’anno scorso è morto. Il mio compagno di giochi. Aveva trentadue anni. Lui, che mi sembrava fosse più fortunato. Gliele davano tutte vinte. Molto più che a me. Lui era coraggioso, io un maschiaccio.
Non c’è più e io lo sogno. La vita l’ha sconfitto, rubando anche a me quel pezzo d’infanzia più bello. Ti ricordo sai? Le nostre gare a chi arrivava primo.
Le nostre notti passate a scrutarci. Chi l’avrebbe mai detto, allora? Quando volevamo sposarci, stare assieme tutta la vita.
Ti ricordi che eri più basso di me? E che te le davo? Che ti ho salvato quando stavi per cadere in quel dirupo? Poi ad un tratto sei cresciuto di colpo, mi hai superato e sei sparito dalla mia vita, immergendoti in storie lontane.
Da adolescenti ci si vedeva, ma il tuo mondo non era più il mio. Non siamo mai stati così distanti come ora. Ti sei polverizzato in pochi minuti in quel crematoio di Marassi, e a me non rimane che la cenere dei nostri ricordi. Ciao, Luca.

al plurale, mancanze:

sospensione delle mestruazioni per gravidanza o per cause patologiche:

si dice mancanze? Non lo sapevo. A me le mestruazioni non sono mai mancate, anzi.
Ho cominciato a sprizzare sangue e vita a undici anni. Allora pensavo che mi sarebbe bastato sognarlo un uomo per rimanere incinta. Crescendo ho capito che non era poi cosi facile.
E ora, che ho finito di crescere da un pezzo, mi pare sia mostruosamente difficile. E le mestruazioni sono ancora lì. Più presenti che mai. Quasi ogni venti giorni. Poi se ne andranno.
Da piccola invidiavo i maschi per tante cose. Ora me n’è rimasta solo una. Un mio caro amico scrittore, quest’anno, finalmente, ha avuto un gran successo. In un’intervista mi ha detto: «Ora sono pronto per fare due figli». Il furbone.
Capite? Ha quarantacinque anni e se ne può uscire così. Non mi consola pensare che quando i suoi figli avranno vent’anni lui sarà più arteriosclerotico di adesso. Lo invidio e basta.

Motivo di colpevolezza:

anche se non faccio niente di male, mi sento come se l’avessi combinata grossa. Ho un istinto che sbanda. Forse colpa delle manacce di quelle maestre intrufolone che mi afferravano in cima agli alberi non perché mi potessi far male, ma semplicemente perché mi si vedevano le mutandine.
Ho sempre fatto cose che non si dovevano fare. Al momento ero felice: sguardo di sfida, sorrisetto malizioso, espressione paracula. Dopo, nel silenzio dei miei umori, mi venivano in mente le marachelle e cominciavo a pensare: E gli altri? Cosa penseranno? L’ho detta grossa stavolta. E più grossa l’ho fatta.
Arriverà il giorno, lo so, che mi darò pace delle mie mancanze, non mi sentirò più in colpa. Quando sarò quell’anziana signora autorevole di cui vagheggiavo qualche riga fa.

fallo:

qui vi volevo. Fallo è sinonimo di mancanza. Mi si confondono le idee. Fallo, nel comune sentire, è pienezza; vagina è mancanza. Ma il linguaggio è strano, svolazza, fa i suoi giochi etimologici, e ci riempie il cervello e il cuore dì simboli.

Fallo è sinonimo di mancanza. Non ci avevo mai riflettuto prima. Ma no, mi sto sbagliando, fallo, pene, non è sinonimo di mancanza e privazione, accidenti! Fallo ha due accezioni: 1. pene; 2. mancanza, privazione.

mancanza non grave:

se non è grave è stupido starne a parlare. Che noia i peccatucci senza importanza, fatti di nascosto. Per cui non vale neanche un fioretto sugli altari dell’imbecillità.

punire le mancanze di qualcuno:

come vorrei punire tutti i cretini. Morte all’imbecillità. W la giustizia! Vacci piano, cara. Non ti montare la testa. Lascia da parte gli antichi rancori. Ci tieni o no ai tuoi sessantaquattro chili di media?

non comune Difetto di esecuzione:

so non è in uso comune, non vale la pena che mi ci consumi il cervello sopra. Me n’è rimasto così poco: sono due ore che mi sto consumando sulla mancanza.

pecca:

che brutta parola “pecca”. Suona meglio come imperativo del verbo peccare che come sostantivo: «pecca, cara, pecca! E divertiti!».

Quante belle cose si imparano sul Devoto-Oli, mio compagno di giochi.
«Te lo porti anche a letto tu», mi ha detto la mia amica Simona e ha ragione: io ci sguazzo nel vocabolario, nuoto nelle parole, affogo nello etimologie.
Ma è anche stupido il vocabolario, mancante.

Udite, udite: donna s. f.

L’individuo femminile della specie umana o, collettivamente, l’altro sesso (opposto e complementare all’uomo). Suscettibile di accezioni o di allusioni diverse secondo il tono generale o il significato del discorso: quindi, moglie (prender donna), amante o concubina (vivere con una donna), femmina compiacente (andare a donne), domestica (licenziare la donna tuttofare).

Pubblicato per la prima volta su Marea, primo numero, marzo 1996

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