Tra tutti i ponti della mia vita, così potrebbe dire la mia protagonista che un po’ mi assomiglia, il ponte Morandi è l’unico che è crollato.
Un ponte che ha significato molto per la città. Costruito tra 1963 e il 1967, anno dell’inaugurazione, il ponte Morandi era anche il simbolo della Genova industriale, del boom economico, di un’Italia con un Pil in prepotente crescita.

Erano fieri i genovesi di quel ponte, lungo oltre un chilometro e alto 45 metri. Era stato anche soprannominato Ponte di Brooklyn per i suoi imponenti cavi metallici ricoperti di cemento che ricordavano un po’ New York. Forse chi viveva sotto al Morandi lo odiava, bellissime a questo proposito sono le foto di Guyot, che hanno fermato per sempre momenti intimi di persone che convivevano quotidianamente con il ponte Morandi.
I genovesi in generale però sono sempre stati affezionati al loro ponte sempre più ammalato, abbandonato all’incuria. Era vecchio e acciaccato, non ce la faceva più, una lunga striscia di asfalto sospesa nel vuoto e pericolante. Da anni avrebbe dovuto essere sostituito con una struttura più conforme alle tecnologie contemporanee o per lo meno essere monitorato meglio e soggetto a una manutenzione più adeguata.
Questo tragico evento, che ha provocato la morte di 43 persone come tutti sappiamo ha anche spezzato Genova e la Liguria in due. È una terra scoscesa, difficile da attraversare, con le montagne a picco sul mare, con una costa presa d’assalto d’estate da milioni di vacanzieri e dai camion di tutta Europa che la percorrono ininterrottamente tutto l’anno.
Poi è successo, è caduto, tra lo stupore generale, era un mostro? O un povero vecchio ponte malandato, che ha cercato di resistere fino all’ultimo all’impatto di un traffico estenuante, scandito da migliaia di Tir che ci passavano sopra ogni settimana?
Questi i quesiti che mi sono posta da subito, poi ho avuto una bella occasione: pubblicare un racconto per un’antologia a cura di Emilia Marasco e Nicolò de Mari per Il Canneto editore, che si intitola, proprio “Il ponte” e i cui ricavati andranno a due associazioni della Valpolcevera. Compratelo!

Alcuni racconti sono molto belli. Gli altri autori sono: Donatella Alfonso, Marco Ansaldo, Rosellina Archinto, Ester Armanino, Sergio Badino, Sara Boero, Marco Bonini, Pietro Boragina, Luca Borzani, Rossana Campo, Valeria Corciolani, Marco Cubeddu, Nicolò De Mari, Arianna Destito, Marco Ercolani, Annamaria Fassio, Silvio Ferrari, Barbara Fiorio, Chicca Gagliardo, Giuliano Galletta, Eugenio Gardella, Riccardo Gazzaniga, Marino Magliani, Emilia Marasco, Giuseppe Marcenaro, Rosa Matteucci, Silvia Neonato, Antonio Paolacci, Marta Pastorino, Enrico Pedemonte, Cinzia Pennati, Rosella Postorino, Daniela Quartu, Federico Rampini, Sara Rattaro, Carlo Repetti, Giacomo Revelli, Paola Ronco, Anselmo Roveda, Camilla Salvago Raggi, Ferruccio Sansa, Ilaria Scarioni, Gianna Schelotto, Michele Vaccari.

Da leggere ce n’è!

Ora di seguito il mio racconto

Appena so come va a finire, ve lo racconto subito

Sentirsi ancorata a qualcosa, in bilico lassù, mentre tutto sotto scorre, fossero acque in tempesta, fiumi pregni di liquami, treni in ritardo, auto che schizzano veloci per chissà quale meta.
Ama i ponti. Sono un punto fermo, ciò che cerca nella vita. Solidi, maestosi, attraversano i secoli imperturbabili, calpestati senza sosta. Spesso si ferma nel punto più alto, per osservare l’agitarsi intorno a lei. Soprattutto sotto di lei. Un mondo in continuo movimento.
Vorrebbe diventare forte così, lasciar scivolare le sue ossessioni, concentrarsi solo su ciò che merita, gettare via il superfluo che le appanna i pensieri. Raggiungere il nocciolo delle cose, star dietro solo a quello che conta. È il suo sogno segreto. I ponti sono così, non si alterano, sono saggi, sanno che il loro compito è far attraversare persone, auto, tir, animali, oggetti da una parte all’altra di una sponda o di un’autostrada, foss’anche di un ruscello. Sopportano tutto, lasciano scorrere.

Il ponte medievale di Taggia

Da bambina si incantava a camminare sui ponti romani o medievali nelle poche escursioni con papà. Era estasiata da quello di Taggia, medievale, lungo 260 metri, con 15 arcate. Aveva resistito nei secoli.
Lì sopra si sente al sicuro, indistruttibile, poi è con papà che non vede quasi mai. Che cosa può volere di più? Sotto ci passa il torrente Argentina, un nome che le fa accavallare i pensieri uno sull’altro, una nazione lontana si chiama così.
Insiste per andare a fare lì le passeggiate.

Papà, forse per sviarla da questa sua fissa, la porta in giro per l’entroterra ligure, alla scoperta di nuovi ponti in pietra. Si è innamorata di quello di Borghetto d’Arroscia, un po’ anche di quello di Dolceacqua, che le è meno simpatico, si dà troppe arie. Una volta sono arrivati persino a Montebruno, un posto lontanissimo sopra Genova, ha scoperto un altro ponte antico che non dimenticherà mai più.

Un giorno dal ponte di Taggia vede che su per la valle ombrosa stanno costruendo dei piloni, conficcati nel terreno, e poi con i mesi un vero e proprio viadotto.
«Ci passerà l’autostrada per andare a Genova e in Francia», dice papà che sa tutto, mentre lei lo tempesta di domande.
«Appena è pronto mi ci porti, papà?», gli chiede speranzosa.
«Però non ci possiamo fermare lassù», risponde lui con fermezza.
«No, dai, voglio fermarmi nel punto più alto come facciamo qui, dai, ti prego, papà!».
«No, non si può, solo le auto ci passeranno e le persone non ci possono camminare sopra».
Trascorre la notte con gli occhi spalancati a rimirare le crepe sul soffitto, escogitando il modo per arrivare sopra a quei maestosi pilastri. Ce ne deve essere uno, no? Chissà com’è il mondo visto da lassù.

Il ponte di Loreto

Compensò questa grande delusione qualche anno più tardi. Da adolescente con i compagni del liceo faceva scorribande in Vespa sulla costa da Imperia a Ventimiglia, spesso risalivano per l’entroterra.
Dopo il ponte romanico di Taggia, ora ha un altro punto fermo, il ponte di Loreto. Inforca la valle Argentina, la strada si inerpica fino sulle montagne, i pendii sono sommersi da ulivi argentati. Passata Triora, e prima di arrivare a Realdo, spunta quello strano ponte. Si chiama Loreto, come la Madonna. È così alto e maestoso, costruito solo per arrivare a Cetta, una piccola frazione. Chissà cosa c’è dietro.
Ad affacciarsi nel punto più alto, lo sguardo precipita nell’abisso, mentre l’acqua scorre a valle scivolando tra gli scogli del torrente. Si sente forte come quelle rocce tutto intorno, solida come il monumento a Garibaldi davanti a scuola.
Qualche anno dopo, cominciano a praticare il bungee jumping. Giovani uomini e donne si lanciano legati a un elastico, fino a sfiorare le rocce del torrente con la testa, 120 metri più sotto.
In quegli anni lei non aveva paura di niente, era incosciente, ma buttarsi giù, abbandonando il ponte di Loreto e la potenza che emanava, quello non le passò mai per la testa.

Il ponte di Brooklyn

Allora l’America esiste. Dopo la maturità, il suo primo grande viaggio. È appena atterrata al “Kennedy”, è salita sul taxi con Pietro e Fabio, per raggiungere Manhattan. Tutt’a un tratto appare il ponte di Brooklyn pieno di luci, è tutto vero, non era un sogno. Spuntano anche i grattacieli visti tante volte nei film, in televisione, nelle foto a colori dei settimanali. Lungo, imponente, con i suoi piloni e i cavi d’acciaio. Ora stanno passando sull’East River, sono sul ponte sospeso più famoso del mondo, lungo quasi due chilometri. Le acque sono infuriate, il cielo al tramonto è grigio, con venature di rosso che bordano le nuvole. C’è, è reale, proprio come il ponte di Taggia.
È il ponte di Brooklyn, capite? Ha ai lati due corsie pedonali, come sentieri che costeggiano un fiume. Il giorno dopo lo raggiungono a piedi, si fermano al centro. Lei chiude gli occhi e ne percepisce la grande forza.
Pensare che a Genova chiamano Ponte di Brooklyn un viadotto dell’autostrada, però è bello anche quello a modo suo, ma niente a che vedere con questa meraviglia, che se ne sta qui impettito da cento anni.

I ponti sul Tamigi

Il ponte illuminato la saluta tutte le sere, quando rientra a casa con il bus notturno. Non vede l’ora di attraversarlo. Si siede al piano di sopra. Scruta le luci della città e, mentre passa sul Tamigi, osserva i suoi ponti tutti in fila.
Stanca della scarsa solidità dell’Italia, negli anni Ottanta si è trasferita a Londra.
Fa tanti lavoretti e torna in Italia per dare gli esami all’Università. Al di là della Manica, si sente rispettata, come una vera cittadina. Non come a Roma, dove ha vissuto tre anni. I ponti della città eterna sono anche più belli, ma li ricorda appena.
La domenica raggiunge il Tamigi, e passa da una sponda all’altra, attraversando il burbero Tower Bridge, il rassicurante London Bridge, l’allegro Southwark, il timido Waterloo, il regale Westminster, il colorato Wauxhall. Arriva fino al Chelsea Bridge, vicino alla fabbrica che fa bella mostra di sé sull’LP di una copertina dei Pink Floyd, oppure passa sotto al Blackfriars dove hanno ritrovato il cadavere impiccato del faccendiere Calvi, un tetro riferimento alla sua Italia piena di abusi, che non le manca granché.

Il ponte di Carignano e il Ponte Monumantale

Papà muore e la mamma la rivuole vicino a sé. Ora vive a Genova, una città melanconica. I suoi carruggi sono veri e propri ponti verso il passato. Abita in una soffitta di quel labirinto, a tratti gioioso, pieno di studenti, puttane, nobili e vecchietti che parlano in dialetto: sembrano venuti fuori da un romanzo d’epoca.
Quando il mondo le infuria dentro esce dai confini della sua tana, abbandona il bosco di pietre dei vicoli e raggiunge la città nuova. Il suo tragitto preferito la porta sul ponte di Carignano, da dove spia il porto e i giardini di plastica, circondati dai goffi edifici di Madre di Dio.

Poi raggiunge il Ponte Monumentale e da lì osserva le auto che passano nella via più trafficata della città, le persone che vanno a far compere nei negozi di lusso. Hanno posizionato delle reti metalliche, per impedire che la gente si lanci di sotto. È successo anche su al ponte di Loreto. Un po’ di tristezza la avvolge, ma poi scompare subito. Non è colpa dei ponti se la gente decide di farla finita, loro sono solidi e scenografici e da lassù si può osservare di nascosto anche la vita di una città difficile, Genova, di cui si è lentamente innamorata.

I ponti svizzeri

Anna affitta ogni estate uno chalet in Svizzera e la invita. Lei è attratta in maniera compulsiva dai ponti di quella nazione, sono tra i più alti d’Europa. Quando ci passa sopra, le sembra di volare da una montagna all’altra. E poi i treni, che passano sui ponti in curva, affacciandosi sul baratro. Da nessun’altra parte ha vissuto un rapporto così intenso con una struttura sospesa, spesso conficcata nelle rocce millenarie. Le sembra di tornar bambina, e di ritrovare la magia di quei primi ponti, che l’hanno poi accompagnata verso l’età adulta.

Il ponte di Mostar

Strano posto, Mostar, per festeggiare vent’anni insieme. Eppure è lì che è voluta arrivare. Una città lacerata, con il suo ponte che nell’immaginario di milioni di persone rappresenta il conflitto della ex-Jugoslavia, uno dei più atroci in terra d’Europa. Lo Stari Most le ricorda i ponti dell’entroterra ligure, soprattutto quello di Dolceacqua. Anche le case in pietra la fanno sentire a casa. Qua e là spuntano i minareti, e la città è cosparsa di cimiteri e tombe con lapidi di suoi coetanei, morti ammazzati nel conflitto.
Lo Stari Most è stato ricostruito da pochi anni, i ponti sono fondamentali, sopravvivono alla violenza e all’incuria umana, perché sono necessari. Se cadono vengono rimessi in piedi, perché servono per raggiungere sponde, gallerie, tratti stradali. Anche se maltrattati e poco considerati, se ne sente la mancanza quando non ci sono più.

Ora i bambini sono tornati a tuffarsi dal loro ponte a schiena d’asino, i turisti a farsi fotografare lassù in cima. Lei si affaccia sulla Neretva, che scorre gelida e impetuosa a valle, chiude gli occhi e le pare di udire le cannonate e gli spari, e di vedere il terrore disegnato sui volti delle persone.
La guerra è finita, il ponte è stato ricostruito, è solido come e più di prima. Ora capisce perché ha scelto Mostar per festeggiare il loro anniversario.

Il Golden Gate Bridge

Il Golden Gate Bridge è finalmente lì, rosso come il fuoco. Un po’ come il ponte di Loreto non si capisce bene tutta questa imponenza per arrivare a Sausalito, un piccolo comune sull’altra sponda. L’Oceano Pacifico incalza sulla baia di San Francisco, una città che ha dato vita ai miti della sua adolescenza, dalla Beat Generation agli Hippy. Da quel ponte, spesso immerso nella nebbia, osserva il fragore delle onde, che sbattono sulla riva, 67 metri più sotto.
Le ricorda un po’ il ponte di Brooklyn, non quello genovese che è sempre più malandato, ma quello vero, quello di New York.

Per entrare nell’Ade non c’è mai stato un ponte. È Caronte, che traghetta i morti sulla sua barca, sfidando le acque agitate. Poche anime vive sono state trasportate nell’aldilà, Persefone, Enea, Ercole, Ulisse, Orfeo. Tanti secoli dopo Dante Alighieri, che trasforma Caronte in un demone: con occhi di bragia / loro accennando, tutte le raccoglie; / batte col remo qualunque s’adagia.

Il ponte Morandi

13 agosto 2018. Sta guidando da Ovada, con un’auto alle calcagna. Appartiene a un amico, che non conosce la strada per arrivare nella riviera del Levante ligure. Stanno tornando da una grigliata notturna nell’entroterra.
Voltri, Prà, Pegli, Genova Aeroporto.

Dopo il ponte sulla Val Polcevera, l’amico deve girare a destra, e raggiungere l’autostrada per Livorno. Lei ferma l’auto per un istante alla fine del viadotto e gli fa cenno con la mano che deve svoltare. Poi lo saluta, sventolando la mano fuori dal finestrino e guardando nello specchietto il ponte e l’auto che lo sta percorrendo dietro di lei e che se ne va per un’altra strada. Sono le 23.36. In realtà sta salutando il ponte Morandi, ma non lo sa ancora.

Non è come il ponte di Taggia, né come quello di Loreto, tantomeno come quello di Brooklyn o come il Golden Gate, non ha niente a vedere con quello di Dolceacqua o di Mostar, non parliamo di quelli svizzeri.
Non ne ha mai percepito la solidità. Un ponte acciaccato, stremato dalla fatica, sfruttato senza sosta. È finita, non ce l’ha fatta, 12 ore esatte dopo il suo passaggio il Morandi crolla.
L’unico ponte a lei familiare che abbia traghettato 43 persone nell’Ade. Per andare nell’aldilà c’è Caronte con la sua barca, non servono i ponti, non sono mai stati usati per questo scopo.

Al momento niente ponti

Da quel giorno è come se in lei si fosse rotto qualcosa. Ora per andare da una vallata all’altra cammina, prima scende e poi sale, oppure per attraversare un fiume nuota o affitta una barca. Non prende più l’auto e nemmeno il treno. I ponti erano la sua forza. Ora deve trovare un’altra strada e volare dall’altra parte di quel moncone sospeso nel vuoto. Forse ce la sta facendo e può darsi che a breve mi racconterà come c’è riuscita. Appena lo so ve lo dico. Promesso.

La stupenda immagine in apertura del ponte Morandi, appoggiato sulle case della Valpolcevera, è di Michele Guyot Bourg. Il fotografo  ha scattato diverse foto in bianco e nero, intitolando il suo lavoro Vivere sotto una cupa minaccia, dedicato a chi abitava sotto le quattro corsie del Morandi.

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