Ripubblico con gioia questa intervista a Emanuele Conte di più di due anni fa, per far capire quanto lavoro c’è dietro a uno spettacolo teatrale, ora che a teatro non si può andare. Sperando che il sipario si riapra presto.
Le recensioni hanno senso oggi? Non le legge quasi più nessuno, anche se sono di qualità. Ormai il brusio di fondo è tanto e tutto passa e scivola via. A Emanuele Conte fanno piacere è chiaro.
È così che cominciamo a chiacchierare di quando, negli anni Settanta, dopo lo spettacolo, si aspettava fino a notte fonda per leggere come quel critico aveva reagito alla prima di una messa in scena. La recensione a quel tempo era il Vangelo. Emanuele Conte andava in corso Torino, era bambino, con mamma e papà Tonino e con la compagnia del Teatro della Tosse. Il ristorante Piedigrotta era aperto fino a notte fonda, così come l’edicola, con i giornali appena sfornati in bella mostra.
Di notte dopo gli spettacoli
E così mi racconta anche di quella volta che tutta l’allegra combriccola è stata fermata a mitra spianati dalla polizia, erano gli anni Settanta, ma quel comportamento di fronte a un bambino? «Mia madre era terrorizzata, ha urlato «tirate giù le armi e non puntatele su mio figlio. Invece hanno puntato la pistola anche contro di me. Quell’episodio ce l’ho ancora stampato in testa».
Un’infanzia tra il Lagaccio e Castelletto
È cresciuto tra via Napoli, allora quartiere proletario, e a Castelletto, quartiere borghese: «Due mondi completamente diversi. Oggi fare queste distinzioni non è più possibile, però allora la differenza era evidente. Poi alla fine degli anni Settanta, tanti giovani dei due quartieri si sono trovati a comprare l’eroina dallo stesso pusher».
Il nostro usuale aperitivo si trasforma in un’intervista
Tra un ricordo e l’altro comincia una lunga chiacchierata. Da qualche tempo ci si incontra per parlare del più e del meno, del nostro centro storico, di Genova, del futuro, dei progetti per questa città. Ma oggi dobbiamo fare la nostra prima intervista e così si comincia. Siamo in piazza delle Erbe, nel centro storico che entrambi amiamo, davanti a due bicchieri di Rosso Portofino.
La condivisione e l’etica secondo Emanuele Conte
Presidente del Teatro della Tosse, Emanuele ne ha preso le redini in mano dieci anni fa, riuscendo – anche grazie ai suoi collaboratori – a far diminuire vistosamente l’enorme deficit, pur non rinunciando a proporre spettacoli di qualità. È una persona riservata, ma prima e dopo gli spettacoli parla con tutti, non lesina mai la sua attenzione verso i frequentatori del teatro. Crede fortemente nella condivisione, così come nell’etica: per questo lo sento vicino, sono due parole chiave per dare un senso all’esistenza, per costruire un progetto di vita.
Com’è che ti vengono le idee per mettere in piedi uno spettacolo?
Parto dalle cose che più mi incuriosiscono. Ho sempre avuto problemi di memoria, non gravi, ma faccio difficoltà a immagazzinare dati. Per questo, con Enrico Campanati, che ha vissuto un’esperienza di amnesia, ho messo in scena l’Amletto, che gioca sulla memoria e la sua mancanza. Ho avuto vicino persone che hanno perso questa facoltà. E mi sono reso conto quanto la memoria sia identità.
Una persona a me vicina, per esempio, anche se è perfettamente lucida non si ricorda niente. Quando la vado a trovare mi accorgo che, se chiude gli occhi e li riapre, possono essere passati tre giorni, un’ora, due minuti. Un attimo per lui dura una vita. Quest’esperienza mi ha fatto capire l’importanza del valore della memoria personale, è ciò che fa di una persona quello che è.
Ora sono incuriosito dal rapporto tra il bene e il male, per questo ho scelto per un prossimo spettacolo Il maestro e Margherita. Oppure, ho lavorato sulla figura di Prometeo per raccontare l’essere umano e il suo valore, sono stufo di sentir parlare dell’umano come di qualcosa di negativo e distruttivo: è una creatura meravigliosa perché sa creare cultura e bellezza. Anche se può distruggerla, almeno la conosce.
Quindi fare teatro e poter decidere su che temi lavorare dà senso al mio lavoro, un’occasione straordinaria che non si può sprecare scegliendo temi facili e opportunistici. Per questo non mi interessa il teatro politico, ma mi piace raccontare cose che sono dentro l’umano. Il prodotto artistico, partendo dal proprio tempo, dovrebbe essere in grado di parlare agli esseri umani di tutti i tempi.
Come ti senti alla prima di uno spettacolo di cui hai curato la regia?
Mi sento una merda, sotto stress come se fosse un esame di maturità. Sono ansiosissimo. Fino a quel momento è una cosa solo tua, che condividi con poche persone, poi invece coinvolgi degli sconosciuti e non sai come possano reagire. Il momento più bello è quando cominci a lavorarci, a collegare le idee che sono sparpagliate nella tua mente, e inizi a capire che hanno un senso e una continuità. Quando si accendono le prime lampadine è un momento meraviglioso. Invece, il giorno dopo la prima sei a pezzi, hai una depressione post partum pazzesca.
Di cosa sei più fiero di questi dieci anni a capo del Teatro della Tosse?
Sono felice che sia più vivo che mai. Sono felice che adesso ci sia un direttore, Amedeo Romeo, che è stato capace di prendere in mano la direzione e migliorare le cose. È un’esperienza che mi ha fatto maturare molto, come tutte le grandi sfide. Sono felice di essere diventato grande. Ci ho messo un po’.
Quali sono le tue ossessioni principali?
Cercare, che non vuol dire trovare, una verità, che probabilmente non esiste. Per questo ho lavorato molto sui testi di Camus, mi ritrovo in molte cose che lui ha scritto. La cerco nel teatro, nella recitazione, nell’azione scenica. Ed è bello perché alla verità spesso ci si arriva attraverso l’artificio. Un mio amico doveva fotografare un muro e, invece che sceglierne uno tra i tanti in giro per le strade, ne ha costruito uno finto. Io gli ho chiesto il perché e mi ha riposto che un muro vero non sarà mai così vero come un muro finto. In teatro è così: non puoi mettere in scena la verità attraverso la verità, ma lo puoi fare solo attraverso la finzione.
Qual è la messa in scena di cui sei più contento?
Orfeo Rave: sono riuscito, anche grazie alla collaborazione di Michela Lucenti, a creare un linguaggio mio, che non fosse necessariamente il teatro di prosa, o la danza, o l’installazione, ma tutte queste cose insieme.
Cosa vuol dire essere figli d’arte? A volte è un ruolo difficile.
Hai davanti un mondo che non è da disegnare, ma è già disegnato. Puoi accettarlo e viverlo oppure no. Credo che tutti i figli d’arte abbiano i loro momenti di conflitto, credo sia naturale. Se riesci a farti condizionare il meno possibile è meglio.
Fuori dal lavoro non è che, con Tonino, ci siamo frequentati molto, direi quasi niente. Era molto coinvolto nel suo lavoro, non è che dedicasse molto tempo ad altro. L’ho conosciuto dopo, lavorando con lui. Ho cercato il suo consenso per molto tempo. Poi lui stesso mi ha detto che non lo avrei mai avuto come lo volevo io. Che mi rassegnassi, che non era capace di darmi né sostegno né riconoscimento. Lascia perdere, mi ha detto, non sono capace. Allora ho capito dolorosamente che dovevo far da me. È stato terribilmente sincero.
Dal punto di vista artistico cosa pensi di aver preso da lui?
Credo che siamo estremamente diversi, però da lui ho imparato che l’impatto visivo è fondamentale, come a sua volta lui lo aveva appreso da Aldo Trionfo. Poi che qualunque musica in uno spettacolo è quella giusta, se è giusta per quella scena. All’epoca suonava strano che un regista scegliesse di mischiare il rock alla lirica. Questo suo essere onnivoro in me lo trovo perfettamente. Condivido con lui anche un’etica un po’ eccessiva.
Teatralmente parlando, il lavoro che faccio con gli attori e sulla lettura dei testi però è molto diverso. Chi ha lavorato con me e con lui, lo sa. Ho avuto la fortuna di imparare anche dai suoi errori. Basta vedere gli spettacoli. Ho un approccio diverso che non so spiegare bene, credo di fare un lavoro più approfondito sui contenuti.
Tonino mi ha insegnato anche un grande senso della libertà, il punto di vista personale deve prevalere. A volte anche in maniera ossessiva, non bisogna mai abbandonarsi alla visione comune. Ma devi trovartene una tua. Poi se hai culo produci delle cose che piacciono anche agli altri.
Quando hai capito che avresti dedicato la tua vita al teatro?
A 25 anni, dopo aver fatto tanti mestieri molto diversi tra loro, ho capito che era il mondo dove mi sentivo più a posto. Proprio come dice Enrico Campanati nell’Amletto, il palcoscenico è il posto dove mi sento più a posto. Anche perché lavori con tante persone, ogni spettacolo è un viaggio. Non ti annoi mai. Da bambino ero ipercinetico, non riuscivo a stare fermo e concentrarmi su una cosa sola per volta, ora lo sono a livello cerebrale. Il teatro è un mondo abbastanza schizofrenico da darti pace. Per questo è un posto pieno di matti.
Se non fossi stato un regista-sceneggiatore-scenografo, cosa avresti voluto fare?
Quello che sto facendo. Per me il mestiere più bello e nobile del mondo è scrivere.
Quali sono le zone di Genova dove ti senti più a casa?
Il cento storico che è la vita di questa città, nel bene e nel male è dove ti incontri, dove fai le cose, dove ridi e dove piangi o ti sbronzi con i tuoi amici, dove conosci le persone.
La circonvallazione offre delle prospettive incredibili che poche città hanno. Io sono un grande guardante. Da bambino quando ero sull’autobus mi piaceva stare sulla piattaforma dietro e guardare in alto, le facciate e i tetti, le persone che si affacciavano. Genova a quell’epoca era tutta grigia. I muri erano neri. Guardando in su vedevo tutta un’altra un’altra città. Ed era meraviglioso. Quando sei sulla circonvallazione a monte, la prospettiva è incredibile, sembra che ci sia solo il mare e qualche tetto e invece ci sono migliaia di abitazioni, strade e piazze, con persone in movimento. Da Castelletto non ti immagini che ci sia piazza Deferrari e tutto quello che in realtà c’è.
A Capo Santa Chiara, è meglio che essere in vacanza. D’estate praticamente ci vivo, in moto ci arrivo in cinque minuti, faccio un bagno e torno al lavoro. E ci vado anche adesso.
Lele Luzzati è stato come uno zio, un secondo papà?
No, Lele è stato solo Lele. Una personalità talmente particolare. Ho scritto un suo ricordo per un libro edito da Enrico Montolivo, dove racconto che, quando mio padre doveva andare a trovare Lele per parlare della messa in scena di uno spettacolo, mi si doveva trovare una occupazione, prima che cominciassi ad attaccarmi alle tende come un gatto impazzito.
La soluzione era una scatola di cartone nella quale Lele teneva oggetti di varia natura per la realizzazione di modellini scenografici, c’erano mobili da casa di bambole, fili, pezzi di stoffa, cubi, piramidi, cilindri e coni di legno colorati, ruote di plastica, omini in miniatura, palline di gomma, riproduzioni di teste di statue romane. Io mi tuffavo in quella scatola come un archeologo e potevo giocare per ore, da solo, non avendo né fratelli né sorelle con i quali giocare al teatro.
C’è ancora qualcosa che mi vuoi raccontare?
Sì la questione dell’etica che condivido con mio padre. Ti racconto una storia.
Tonino non ha avuto un ottimo rapporto con suo padre, mio nonno, che è stato un operaio dell’Ansaldo e anche navigatore. Era iscritto al Pci. Ha lavorato come un matto tutta la vita. Con mia nonna erano immigrati a Genova da Napoli, scappando dalla miseria nera, quando mio padre aveva tre anni e mia zia uno. Ma c’è una cosa che non dimenticherò mai, me l’ha raccontata Tonino.
Nel 1945, quando è finita la guerra – mio papà aveva dieci anni – sono scesi tutti in piazza Deferrari e in via Venti Settembre a festeggiare. C’erano anche i partigiani o gli americani con i prigionieri di guerra, i tedeschi e i fascisti. La gente si è messa a sputare loro addosso, a scagliare oggetti.
Nonno Conte
Mio nonno, nonostante fosse comunista, disse: «Andiamo via, non è giusto», senza spiegare troppo. Questa cosa aveva impressionato molto Tonino. Etica è avere un senso della giustizia e rispetto per l’umanità. Un episodio che trovo molto forte, soprattutto da mio nonno che era un convinto antifascista. Ero molto affezionato a lui. Suonava tutti gli strumenti quando navigava, mandolino, chitarra, pianoforte, ma a casa era timido e non l’ho mai sentito suonare.
Nonna Conte
Mia nonna invece, una donna mingherlina secca come un chiodo, per niente nello stereotipo della signora napoletana paffuta, lavorava al proiettificio dell’Ansaldo e organizzò una rivolta sindacale delle donne. Ero molto legato a loro. Potrei parlartene per delle ore, erano buffi.
Emanuele si accorge che sono le otto e dieci, fra venti minuti Enrico Campanati sarà sul palcoscenico per la quarta sera di seguito con l’Amletto. Oddio, com’è passato il tempo, sono in ritardissimo, mi dice. E scappa via, trafelato, con la paura di arrivare troppo tardi. Non gli va di lasciare solo il suo attore, di non salutare gli spettatori che entrano, scambiare quattro chiacchiere con loro, guardandoli negli occhi. Etica e condivisione, due parole desuete, ma che aiutano a dare un senso alla tua vita e a quella degli altri. Grazie Emanuele.
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La foto è di Donato Aquaro
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Questa intervista è stata pubblicata per la prima volta su mentelocale il 22 novembre del 2017: è stata la mia ultima per quel sito che ho diretto con gioia per ben 17 anni, una gran bella esperienza: abbiamo sperimentato tra i primi in Italia l’informazione sul web.
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