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Ogni volta che esco dalla metro a Porta Garibaldi, dopo la costruzione di Piazza Gae Aulenti, mi sembra di precipitare in una città contemporanea, tipo Londra o Berlino. È come se il mio skyline mentale si sfocasse. Come se qualcuno mi suggerisse: non sei in Italia, non sei a casa, ma in viaggio. Ed è un bel sentire. C’è voluto tanto tempo, poi anche Milano è riuscita a dare vita al suo primo quartiere globalizzato. Benché ami i centri storici del Bel Paese pieni di stratificazioni storiche, mi sento a casa anche in questi non luoghi. È come se la mente avesse più spazio per pensare il futuro.

Un vero peccato che sia scomparsa l’atmosfera dell’Isola – il quartiere storico – però è come se si continuasse a sentire quell’energia. Un po’ come a Potsdamer Platz a Berlino.

La Fondazione Feltrinelli

Tutto questo andavo pensando, mentre muovevo i miei passi verso la Fondazione Feltrinelli, l’edificio nuovo di zecca, progettato da Herzog & de Meuron. Da fuori è un po’ austero, ma all’interno sembra quasi di essere all’aperto, come era nelle intenzioni degli architetti. Perché gli sguardi escono dalle grandi vetrate indisturbati e spaziano tutt’intorno. Così recita un cartello posto in vetrina: «La grande architettura può essere un sostegno rilevante, ma è meno importante delle attività che accadono dentro e intorno agli edifici», firmato Jacques Herzog. «Una nuova sede iconica per una grande casa delle culture sociali, moderna e internazionale», gli fa eco Carlo Feltrinelli.

Al pianterreno il Babitonga café, e la libreria. Provo a cercare tracce di Giangiacomo Feltrinelli, il fondatore della casa editrice, ma trovo solo la sua biografia, scritta dal figlio Carlo. Un po’ poco.

Il pensiero vola libero?

Al primo piano l’opera di Joseph Kosuth Nineteen Locations on Meaning, dei neon montati sul muro e poi una grande sala con un palco, dedicata alle arti performative. Al terzo e ultimo piano, una biblioteca piena di gente che studia. Lo spazio a struttura triangolare ha un grande fascino, con una altissima libreria che si incastona perfettamente nello spazio. Poi – mi fa sapere Francesca, solerte addetta stampa – all’interno della struttura si sarebbero potuti fare più piani, come nell’edificio gemello di fianco, ma «abbiamo voluto lasciare gli spazi ampi» per permettere al pensiero di volare libero.

Gli incredibili archivi della fondazione – anche l’ultima lettera che il Che ha scritto a Fidel Castro – per ora sono ancora in via Romagnosi, la sede storica. Sono stata in quel palazzo tanti anni fa, per intervistare Carlo Bo, che abitava proprio in quell’edificio, un pomeriggio indimenticabile. Vent’anni fa Milano era tutta un altro mondo.

Eataly, la multinazionale italiana

Nessuno si sarebbe mai aspettato allora che gli archivi si sarebbero trasferiti in un edifico così imponente. Così come che a pochi passi, in un ex cinema, dall’altra parte di Porta Garibaldi, sarebbe sorto un grande negozio chiamato Eataly Smeraldo. Ma non mi fermo lì a mangiare, preferisco far una sosta in un locale di Corso Como, per recuperare un po’ di energia in mezzo agli edifici storici e poi ripartire alla volta di piazza Gae Aulenti, ormai un must per chi visita o vive a Milano.

Piazza Gae Aulenti

Di sera con il buio e in pieno inverno, con le sue strade deserte o con le persone che sciamano veloci tra i grattacieli puntellati di luci ha un fascino particolare. Anche se è bello percorrerla d’estate, con la gente distesa sulle chaise longue a prendere il sole, vicino alle fontane e ai giochi d’acqua. Stona un po’ quella scritta Unicredit lassù in cima, ma serve come memo per ricordarci che sono le banche che governano il pianeta. Non mi dispiacciono le due torri dell’architetto Stefano Boeri, anche se in molti paventano che il Bosco Verticale porti umidità all’interno degli appartamenti.

Torre Diamante

Sono le sei, sono sotto la Torre Diamante, alzo il naso e guardo tutte quelle persone negli uffici aldilà delle vetrate, su e ancor più su per tutto il grattacielo. Dalla porta principale, invece, stanno uscendo decine di impiegati tutti in fila, compunti, tante donne chiuse nei loro vestiti, rigorosamente vestite di blu, sicuramente diverse dalle segretarie descritte nel libro più geniale e pungente uscito su Milano nel secolo scorso, per la precisione nel 1962.

La vita agra di Luciano Bianciardi

La vita agra di Luciano Bianciardi che così descrive le segretarie, vera spina dorsale dell’import-export, del commercio, delle attività terziarie e quartarie. Secche di gambe, piatte di sedere, sfornite di petto, picchiettano dalla mattina alla sera coi tacchi a spillo, sugli impiantiti lucidati a cera, e poi su un pezzetto di marciapiede, fino alla fermata del tram.

Oggi sembra passato un millennio da quella Milano lì, ma son solo cinquant’anni. La società solida si è sfaldata ed è diventata liquida, tanto per citare Zygmunt Bauman. Camminando tra i grattacieli e tornando verso la fermata della metro sento il sussurrare di quel mondo che fu. E mi fa un gran piacere, davvero.

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Pubblicato per la prima volta su mentelocale.it a febbraio 2017